SALVATORE SETTIS “LA TUTELA DEL PAESAGGIO”

Settis: a rischio vero sono i paesaggi
BRUNO PEDRETTI – S. SETTIS
Il Giornale di Architettura, n.6, aprile 2003

Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte nonché direttore della Scuola Normale di Pisa, negli ultimi mesi ha guadagnato una vasta notorietà, come raramente accade agli studiosi. A proiettare Settis sin sulle prime pagine dei giornali e nelle trasmissioni radiotelevisive rendendolo una figura di riferimen to politico – culturale, è stato il suo libro Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, edito da Einaudi, dove egli tratta i problemi della tutela e delle politiche centrate sulla vendita dei beni storico – artistici pubblici. Professor Settis, si aspettava tanta notorietà con la pubblicazione del suo libro? Non è la mia notorietà che conta, ma il dibattito culturale e politico che si è aperto nel Paese sui problemi trattati in quel mio libro. Sono naturalmente soddisfatto dell’ampio risalto dato al mio libro e ai temi che in esso ho sviluppato rielaborando una serie di articoli da me dedicati negli ultimi anni alle questioni del patrimonio culturale. Per dare la misura dell’inattesa risonanza ottenuta dal libro einaudiano, posso segnalare che è già alla terza ristampa e che conta più di settanta recensioni, cui vanno aggiunte varie interviste, servizi nei media e decine di inviti a tenere conferenze sul tema, inviti cui mi scuso anche pubblicamente di non potete dare sempre una risposta positiva.

Va dette che grazie al sua libro il dibattito sul patrimonio culturale si é molto vivacizzato. < Non posso che esserne felice, ma va ricordato che al mio libro se ne accompagnano almeno altri tre usciti negli ultimi mesi: Il tesoro degli italiani dello stesso ministro Giuliano Urbani (Mondatori) e i due lavori di Silvia Dell’Orso, “Altro che musei” (Laterza) e di Rosanna Cappelli, “Politiche e poietiche per l’arte” (Electa).

Nel frattempo, il ministro Urbani le ha chiesto di entrare ml Consiglio scientifico per la tutela, un incarico che ha fatto parlare qualcuno di un’impropria alleanza tra «nemici». E io ho accettato volentieri tale incarico esattamente perché non vi vedo nessuna impropria alleanza, bensì la possibilità di dare il mio contributo a disegnare le linee di politica culturale in materia di tutela e gestione dei beni storico – artistici. Questo è un campo dove non ci possiamo permettere ritiri sull’Aventino o chiusure preconcette, e come ho rimarcato in più occasioni per sgomberare il campo da facilonerie ideologiche, la legge 1089 del 1939, che io ritengo la più avanzata al mondo in tale settore, fu voluta dal ministro fascista Bottai, sebbene l’impianto si modellasse su una lunga tradizione legislativa che risale addirittura agli Stati preunitari italiani.

Su «Micromega», n. i, 2003, nel suo lungo articolo “Un programma per i beni culturali”, lei sembra appunto volersi riallacciare a questa tradizione legislativa per farne discendere una chiara linea strategica in netto contrasta con le attuali scelte politiche. Nelle pagine di «Micromega», rintracciando la spina dorsale legislativa del «modello Italia», cerco in effetti di delineare le strade da seguire per una politica sensata e lungimirante . Dibattendo le più recenti tappe legislative e contestando gli indirizzi politici degli ultimi anni, sostengo che il demanio o altri enti pubblici possono anche vendere parti del loro patrimonio, purché nel rigoroso rispetto dei beni artistici vincolati. Oggi è di particolare urgenza depotenziare l’aggressione al patrimonio culturale portata avanti soprattutto dalle diverse leggi Tremonti (senza però dimenticare che l’accelerazione degenerativa dell’attuale governo di centrodestra ha goduto delle s cattive scelte operate dai precedentii governi di centrosinistra). Per conseguire questo obiettivo, il primo strumento consiste nel definire in modo inequivocabile i limiti di ciò che è legittimo mettere i sul mercato e di ciò che deve rimanere inalienabile, di proprietà pubblica. Le astuzie procedurali e le ambiguità normative delle recenti leggi, la confusione dei famosi elenchi dei beni alienabili e persino le prevaricazioni decisionali dei ministro dell’Economia che oggi minacciano il nostro patrimonio culturale vanno contrastate elaborando e sancendo un chiaro statuto dei patrimonio culturale.

Come si può articolare tale statuto in modo da regolamentare anche le possibili dismissioni?

Proprio in nome di una chiara operatività, propongo di partire dalla compilazione di tre liste dei beni. La prima categoria comprende ciò che è di assoluto valore storico/artistico e come tale del tutto inalienabile (per esempio monumenti quali il Pantheon); la seconda categoria prevede i beni di valore nullo o irrilevante (per esempio la massa di appartamenti di proprietà demaniale, di fabbricati industriali o ad uso militare senza pregi); la terza categoria include infine le situazioni intermedie, da affrontare caso per caso (per esempio le Manifatture Tabecchi che in vari casi possono anche essere cedute, ma non quella di Firenze firmata da Nervi, che invece è stata già venduta senza nemmeno consultare in via preventiva il ministero dei Beni Culturali).

Non ci possono essere regole certe in mancanza di uno statuto del patrimonio culturale, ma questo non è identificabile senza una sua ricognizione…..

Anche su questo fronte, sempre in nome di uno spirito pragmatico, propongo che l’Istituto centrale per il catalogo, ottimo per i suoi standard di catalogazione, acceleri una ricognizione predisponendo un «formate breve» delle sue eccellenti schede: queste non saranno dettagliate come quelle improntate al massimo specialismo, ma potranno tracciare delle affidabili linee di demarcazione fra ciò che è patrimonio culturale e ciò che non lo è.

Queste nette linee di demarcazione, sebbene necessarie, come si conciliano con il «modello Italia», che, come lei sostiene richiamandosi anche all’articolo 9 della Costituzione, vive di «continuità e continuità» tra opère d’arte, monumenti, tessuto architettonico, tracce storiche, paesaggi? Almeno dagli studi di Alois Riegl in poi, è diventato quasi impossibile distinguere monumento da documento, dunque ciò che è di valore da ciò che non lo è.

Quelle sullo statuto teoretico dei i beni culturali è un dibattito di grande fascino e difficoltà che richiede a sua svolta di essere sviluppato tra gli studiosi e nelle università. Nel frattempo concentriamoci su uno sforzo che, senza comprometterne la complessità, ci permetta però una gestione insieme pragmatica e lungimirante. Non tutti i «document!i» possono godere della protezione di un’indistinta artisticità che li éleva a «monumenti»; non tutto il passato è uguale ai fini della memoriastorica; non tutto il territorio è di pari valore paesaggistico. La nostra visione patrimoniale ovviamente cambia nel tempo, ma il giudizio di valore deve poter distinguere sulla base della rarità e della qualità di un’opera, di un documento. Se un brandello di papiro con un frammento inedito di Eschilo è di valore inestimabile, non altrettanto possiamo dire di uno dei molti documenti notarili del Novecento. Quanto più la documentazione si allarga, tanto più il suo valore (dunque anche la sua inalienabilità) si allenta. Abbiamo superato da decenni il capolavorismo che limitava la tutela al singolo monumento superlativo, ma non per questo dobbiamo cadere nell’errore opposto, ossia in una parificazione indiscriminata di ogni segno e opera del passato.

Se sul fronte della memoria storica possiamo almeno in parte elaborare giudizi e gerarchie di valore, resta da affrontare il delicato problema della contiguità delle opere nel territorio. Noi oggi sappiamo che la salvaguardia di opere isolate è un controsenso e che il tessuto connettivo è spesso rilevante quanto il singolo monumento. C’è dunque il rischio di una sorta di entropia della tutela, ma anche qui possiamo applicare e articolare i principi prima richiamati di unicità, rarità, qualità, esemplarità dei contesti. Il nuovo quadro législative in materia di patrimonio culturale e la nuova legge sulla qualità architettonica che si stanno preparando presse il ministero dei Beni e delle Attività culturali, vanno nella direzione giusta, perché riservano un’attenzione particolare alla dimensione contestuale. Per chiarire la giustezza di questa attenzione al contesto, voglio usare una bella formula suggeritami da alcuni miei lettori: è la «consanguineità tra cittadini e patrimonio culturale». Mi sembra un’ottima sintesi del doppio principio della «continuità e contiguità» che rende unico il «modello Italia» grazie all’integrazione di opere d’arte, documenti storici, tessuto architettonico e paesaggio (è una «consanguineità» metaforica, che ovviamente non ha nulla a che spartire con la nefasta ideologia del «sangue e suolo» propugnata dai nazisti).

Su molti mezzi di informazione si è enfatizzato il problema della vendita del patrimonio culturale con lo stereotipo del Colosseo ceduto ai privati. Lei non ritiene piuttosto che il maggiore pericolo riguardi il paesaggio, il territorio?

Sono completamente d’accordo: sono i nostri paesaggi la parte di patrimonio pubblico che rischia di diventare la principale vittima designata della svendita, soprattutto perché, come ha ricordato anche il ministre Urbani, è noto che la gestione diretta di un monumento non diventa mai fonte di profitto per i privati, mentre la speculazione sul territorio, magari per scopi turistici, promette ben altri guadagni.

In molti casi, il turismo è però la principale giustificazione economica a supporto delle stesse politiche di tutela.

Questo è vero, ma è ora di capire che il patrimonio culturale ricopre un’utilità economica in senso molto più esteso, in quanto fattore che favorisce e supporta non solo il classico turismo e il suo estesissimo indotto, ma che aiuta anche altre funzioni terziarie, come le attività legate ai congressi, alla produzione e promozione di prodotti tradizionali e di beni di valore aggiunto estetico. Da questo punto di vista, si capisce quanto siano miopi le odierne politiche che vogliono fare cassa vendendo i beni storico – artistici. Per risolvere in modo più equo i problemi finanziari dello Stato, meglio sarebbe ridurre di qualche punto percentuale l’evasione fiscale, che in Italia è la maggiore nell’intero Occidente!

Il nostro Paese, oltre che campione di illegalità economica, lo è anche di turismo, che è la arma più appariscente dell’estetizzazione del patrimonio culturale. La mia recensione al sua libro («II Giornale dell’Architettura», n. 2, (dicembre 2002) si chiudeva proprio su questo problema, ipotizzando un’erosione consumistica del ruolo storico del patrimonio culturale quale perno nella costruzione dell’identità civile. Lei però si è dette in disaccordo. Diciamo piuttosto che non ho condiviso lo scetticismo delle sue conclusioni. Il «modello Italia» non è giunto al capolinea della sua funzione civile. Il problema dell’involgarimento turistico e consumistico che assedia il patrimonio culturale, esiste. Ma io non credo che esso sia una novità «moderna», né tanto meno credo che una visione inevitabilmente un po’ disincantata del nostro tempo debba portare a un appiattimento sui livelli più bassi delle culture sociali, accettando per esempio svendite del patrimonio pubblico e speculazioni turistiche a spese dei nostri paesaggi poiché cosî chiederebbero i nuovi consumi. Io ritengo che oggi si debba contrastare una sorta di moda dello scetticismo, di cui i mezzi di informazione sono purtroppo i primi responsabili. Inoltre, dacché il mondo è mondo, le opère d’arte e i monumenti in generale si prestano a diversi livelli di lettura: anche nel mondo antico molti Romani correva/ no in massa a visitare Olimpia e Atene senza capirci molto. A me piace riconoscere i tempi lunghi della storia, i rapporti di genealogia nelle culture, sia alte sia basse. Dunque, teniamo ben presenti i problemi del consumismo estetico contemporaneo, ma governarli non significa affatto accettare i processi di degrado sociale e istituzionale: nessun fenomeno di involgarimento ci deve legittimare a negoziare l’assetto pubblico e il ruolo civile del patrimonio culturale.

Dunque bisogna insistere sul ruolo pubblico del patrimonio culturale nella istruzione dell’identità sociale.
Si, e non in nome di un feticismo collettivo per le nostre opère d’arte o di una stereotipa nostalgia del passato, ma semplicemente perché sappiamo che i peggiori figli sono quelli che pretendono di non avete un padre.

Un patto per la tutela del paesaggio
SALVATORE SETTIS
17-NOV-2006 La Repubblica
L’APPELLO del ministro Rutelli a un rinnovato impegno per l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ha avuto un riscontro ampiamente positivo: buon segno, se dalle intenzioni si vorrà passare ai progetti concreti. Ne sarebbe contento Gombrich: in un’intervista rilasciata poco prima della morte disse che «i guardiani del patrimonio artistico italiano, il più ricco del mondo, devono essere i cittadini italiani; perciò studiare storia dell’arte è più importante per gli italiani che per chiunque altro». Ma quale storia dell’arte va insegnata in Italia all’alba del XXI secolo? I manuali tradizionali, con le loro sfilze di quadri e sculture e architetture in ordine cronologico, non bastano più. Se l’educazione all’arte serve alla formazione del cittadino (di una coscienza civica attenta alla conservazione), bisogna prender atto che il centro del problema si è spostato: alla storia delle arti belle va aggiunta, e in posizione centrale, quella del paesaggio e dell’ambiente, del loro delicato innestarsi sul tessuto urbano. Perché è qui, nella non-tutela del paesaggio e dei tessuti urbani, che si compiono i maggiori scempi, ed è qui che la coscienza civica deve farsi adulta. Anche la percezione dello spazio urbano come spazio della socializzazione e della civiltà è stata data per scontata per secoli, oggi non più. È necessario un grande sforzo di ricerca e di educazione sull’ identità della città contemporanea, sul suo sfumare (attraverso periferie oggi così desolate) nella campagna.
È sul fronte del paesaggio che il sistema della tutela rivela le sue maggiori debolezze, anzi è assai mal definito sin dalla legge 1497 del 1939, secondo cui la tutela si esprime con atti generici che “vincolano” sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato. Il progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle istanze locali ha segnato il tracollo delle procedure di salvaguardia, già iniziato quando il DPR 616/1977 delegò alle regioni la “protezione delle bellezze naturali”, con facoltà di subdelega ai Comuni, pur mantenendo un finale giudizio di conformità da parte delle Soprintendenze. Nel nuovo Codice dei Beni culturali, al contrario, l’art. 135 prescrive sì l’obbligo di piani paesaggistici regionali, ma il ruolo del controllo statale è capovolto anche rispetto alla legge Galasso (431/1985): le Soprintendenze perdono il potere di annullare “a valle” le autorizzazioni edilizie dei Comuni, possono solo partecipare, “a monte”, alla redazione dei piani paesaggistici regionali. Possibilità peraltro teorica, perché secondo l’art. 143 del Codice le regioni «possono» (e non «devono») stipulare «accordi col Ministero per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici»; ma soprattutto perché le regioni mostrano gran riluttanza a redigere i loro piani paesaggistici, e lasciano di fatto mano libera ai Comuni. Al giudizio di un funzionario dello Stato con le debite competenze tecniche e piena indipendenza da ogni potere politico si è così sostituito il pulviscolo di una serie di decisioni sconnesse di singoli amministratori comunali, che troppo spesso ahimè (dalle Alpi alla Sicilia) sono inclini a svendere il paesaggio pur di raccattare qualche voto.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, grazie al “caso Monticchiello”: Rutelli dichiara pubblicamente (convegno FAI del 10 novembre) che «la realizzazione di quei villini dozzinali fa vergogna alla capacità progettuale del Paese», l’assessore regionale Conti (Il Tirreno, 31 agosto) chiosa che «quell’insedia-mento fa schifo», e via con invettive d’ogni sorta; ma il presidente della regione Toscana dichiara alla Repubblica (9 novembre) che il triste villaggetto non si può abbattere perché le licenze rilasciate dal Comune sono in regola, e d’altronde il piano paesistico per la Toscana manca. Insomma, il disastro è fatto ma la colpa non è di nessuno.
Il caso Monticchiello (ma ce ne sono, in Toscana e altrove, di ancor peggiori) è istruttivo. Prima si fa campagna perché la Val d’Orcia venga inserita nella lista dei siti Unesco in grazia del suo paesaggio meraviglioso e intatto. Una volta ottenuto il “marchio” Unesco, si progettano i “villini dozzinali” a duecento metri dal borgo, e si lancia sui giornali una campagna acquisti: compratevi la villetta a schiera in un sito Unesco! Bel capovolgimento dei valori: il riconoscimento Unesco, un sigillo di qualità che dovrebbe comportare l’impegno a difendere quel paesaggio, diventa un incentivo a svenderlo, viene esso stesso mercificato. Che la speculazione edilizia prediliga i siti più intatti, più prestigiosi, più ricchi di valori paesaggistici e ambientali, è un fatto: il progetto che vorrebbe installare sulla riva del lago Inferiore di Mantova (uno straordinario paesaggio plasmato dall’uomo, e intatto da mille anni) 185.000 metri cubi di cemento è mirato a “usare” lo skyline urbano di Mantova, fra i più celebrati del mondo, come la veduta da offrire ad acquirenti e inquilini, trasformando la mirabile città in una cartolina da quattro soldi. Peccato che dal castello di San Giorgio, dalle stanze dei Gonzaga affrescate da Mantegna, si debba poi vedere la squallida cartolina del neo-ecomostro mantovano.
Quel che sta accadendo non è colpa solo del Codice né delle altre leggi, ma anche dell’infelice riforma del titolo V della Costituzione (2001), che anziché risolvere la ripartizione dei poteri fra Stato e regioni, l’ha resa ardua e impraticabile, sollevando davanti alla Corte Costituzionale decine di conflitti. Secondo l’art. 117, la potestà legislativa su tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (ivi compreso il paesaggio) spetta, in via esclusiva, allo Stato. Quanto alla valorizzazione, allo Stato spetta fissare i principi, alle regioni (ivi comprese quelle ad autonomia speciale) la regolamentazione di dettaglio. L’esercizio della valorizzazione, ha chiarito una sentenza della Corte (26/2004) è in capo al possessore del bene, che sia lo Stato o la regione. Infine, secondo l’art, 118, leggi dello Stato devono regolare forme di intesa e di coordinamento fra Stato e regioni «nella materia della tutela dei beni culturali». Ma la stessa distinzione fra “tutela” e “valorizzazione” è confusa e contraria alla buona amministrazione, produce frammentazione dell’azione amministrativa e dispersione delle responsabilità.
“Ognun vede quanto insidiosa possa essere l’interpretazione di questo groviglio inestricabile, e lo illustrano bene tre casi di questi giorni. Il Friuli-Venezia Giulia (regione a statuto speciale) ha creato con propria legge una Fondazione per la gestione del patrimonio archeologico di Aquileia, in massima parte statale, senza minimamente coinvolgere gli organi dello Stato, che naturalmente ha subito avviato un procedimento impugnativo. Lo stesso sta accadendo con due altre regioni ad autonomia speciale: la Sardegna si è attribuita la competenza esclusiva a delineare nel Piano regionale “gli obiettivi e le priorità strategiche, nonché le relative linee d’intervento per la conservazione dei beni culturali, per la ricerca archeologica e paleontologica”; la Val d’Aosta prova a legiferare in materia di archivi senza coordinarsi con gli organi dello Stato. In questi tre casi, non è l’interesse delle regioni, per sé encomiabile, che è in discussione, bensì il loro ruolo: a quel che pare, anziché cercare forme di leale intesa, sta prevalendo la tendenza a cavillare, sfruttando la crisi delle Soprintendenze (per mancanza di assunzioni) e le ambiguità del nuovo Titolo V per “allargare lo spazio” delle regioni a detrimento di una concezione unitaria della tutela in tutto il territorio nazionale, prescritta dall’articolo 9, non a caso fra i principi fondamentali della Costituzione. Questa guerra di logoramento non avrà né vinti né vincitori, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un preziosissimo bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di un continuo “fuoco amico” fra i poteri pubblici. E’ tempo di lanciare in questo Paese, come ha proposto il FAI al termine del suo recente convegno, un grande patto nazionale perla tutela che includa Stato, regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e dalla necessaria unità del Paese, vigorosamente richiamata dal presidente Napolitano. In questo patto anche l’educazione all’arte, al paesaggio, all’ambiente, deve avere un ruolo essenziale, pena la devastazione dell’Italia che amiamo.

Così fermerò gli ecomostri. È lo Stato che deve tutelare il paesaggio, non i Comuni
Mariella Bertuccelli intervista Salvatore Settis
Il Tirreno 29.04.2007

Mariella Bertuccelli intervista il Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e del paesaggio. Da il Tirreno del 29 aprile 2007

Qualcosa si muove. Nell’Italia del cemento e dell’asfalto c’è chi comincia ad aprire gli occhi sul saccheggio del paesaggio, lo considera una vera e propria emergenza nazionale e corre ai ripari.

Ci prova il ministro Rutelli, dichiarando guerra agli ecomostri e intanto facendo muovere la magistratura che mette i sigilli ai cantieri di di Monticchiello.
Ma anche rivitalizzando quell’organo in apnea che era il Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici ed affidandone la presidenza a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa, professore ordinario di Storia dell’arte e dell’archeologia classica, un Don Chisciotte della bellezza che da anni, a suon di denunce e in compagnia di poche altre voci, combatte contro i “vandali”.

Professore, finalmente il Consiglio si è messo in moto…
«Il Consiglio superiore era completamente atrofizzato. Negli ultimi cinque-sei anni si era riunito quattro o cinque volte, con un tasso di una riunione l’anno. Il ministro Rutelli ci tiene molto a che funzioni e ha voluto rivitalizzarlo: c’è voluto più tempo del previsto, ma l’importante è che sia avvenuto. Il Consiglio si è già riunito due volte, pronunciandosi su una bozza di riforma del ministero, e ha in calendario da qui a dicembre una decina di riunioni».

Cosa si aspetta da questo lavoro?
«Di dare buoni consigli al ministro».

Ci spieghi. Nell’ambito delle competenze del Consiglio ci sono anche i rapporti con le Sovrintendenze?

«No, il Consiglio superiore non è un organo che decide. Qualcuno mi ha chiesto come mai abbiamo deciso di mandare in prestito l’Annunciazione a Tokyo… E negli ultimi mesi ho ricevuto almeno 200 richieste, compresa quella di una signora che mi chiedeva perché non ci occupassimo della magnolia che stavano abbattendo nel cortile sotto la sua casa. Vorrei fosse chiaro che il nostro è un organo consultivo che si pronuncia solo sui temi su cui il ministro decide di interrogarci».

Rutelli vi ha chiesto aiuto anche per quanto riguarda l’emergenza paesaggio?
«Per il momento non c’è nulla all’esame del Consiglio. C’è invece un’altra partita aperta. Il ministro ha appena istituito una commissione, ancora presieduta da me, per i ritocchi al codice dei beni culturali. E nell’insediarla ci ha dato come compito primario quello di rivedere con attenzione la parte che riguarda il paesaggio: il mandato è quello di alzare le garanzie di protezione del paesaggio, combinando tutte le istanze possibili, dello Stato e delle Regioni, delle Province e dei Comuni».

Insieme al presidente Napolitano e al ministro Rutelli, è tra i destinatari di un appello del “Comitato per la bellezza” che fa un quadro drammatico dell’emergenza paesaggio in Italia. Lei cosa ne pensa?

«In questo il mio giudizio coincide con quello del ministro Rutelli. L’emergenza paesaggio esiste. C’è un vuoto di normativa, e quella che c’è è stata interpretata in modo non rigoroso. Di fatto lo Stato ha ceduto troppo alle Regioni le quali, in genere, hanno fatto poco o nulla. Una cosa però l’hanno fatta, hanno delegato ai Comuni. Subdelegare ai Comuni ha, a mio avviso, conseguenze negative. I Comuni piccoli, che sono la grande maggioranza e amministrano di fatto una parte enorme del territorio nazionale, non possono avere delle competenze locali di paesaggistica. Non si può pretendere, tanto per citare sempre il famoso caso di Monticchiello – come se fosse l’unico, ma ce ne sono di molto piu gravi – che il comune di Pienza abbia un paesaggista. Non dico che Pienza non debba dire la sua sul territorio del Comune, sarebbe ridicolo. Però occorre che il Comune faccia la sua parte, la Provincia la sua, la Regione e lo Stato la loro. È chiaro che questi ruoli, nel loro rapporto reciproco, non sono ancora ben definiti e lo devono essere, a livello di normativa e di prassi. Credo però che le “buone pratiche” si potrebbero istituire anche con la normativa che c’è, in attesa di migliorarla».

Ma intanto il saccheggio continua…
«Ho raccontato al ministro una mia esperienza recente. Ero a Berna, ad un convegno internazionale della Società nazionale svizzera per la protezione del patrimonio culturale. C’erano tutti i paesi confinanti e di italiani c’ero io. Mi avevano chiesto di fare una sessione plenaria e ho parlato delle normative italiane. Nella discussione che è seguita mi sono state rivolte una ventina di domande e almeno la metà erano di questo tono: “Ma cosa state facendo, perché rovinate l’Italia e proprio le zone più belle?”. Ognuno citava il posto che conosceva meglio, molti la Toscana, molti l’Umbria, altri Sicilia e Veneto. Quindi che ci sia l’emergenza paesaggio lo sanno tutti. A volte siamo noi che chiudiamo gli occhi perché non vogliamo vederla».

Quando si parla di emergenza paesaggio ci si riferisce quasi sempre a scenari naturali. E le città? Non subiscono gli stessi sfregi?
«È una preoccupazione che trovo molto giusta e che invece è stata respinta al margine. Una delle persone più intelligenti che mai si siano occupate di queste tematiche in Italia è Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto centrale per il restauro, scomparso nel 1995. Questi problemi lui li aveva visti con grande anticipo. Per misteriose ragioni, diceva Urbani, noi ci siamo convinti che in Italia esista un oggetto che si chiama paesaggio, un altro che si chiama ambiente ed un altro ancora che si chiama governo del territorio. Ma queste tre cose sono una sola. Invece abbiamo creato degli ingorghi burocratici, una situazione in cui il territorio è di competenza degli enti locali e manca una visione complessiva. In questa disgregazione a rimetterci sono precisamente il paesaggio, l’ambiente, la città. Non c’è dubbio che il tema del paesaggio includa il drammatico problema delle periferie, delle orripilanti periferie che l’Italia ha saputo costruire distruggendo mille anni della propria storia, per non dire tremila, nel secondo dopoguerra. Questo però è un problema che non si risolve con una politica di vincoli, non limitandosi a dire quell’edificio non si tocca o lì non si costruisce. I vincoli ci vogliono ma serve soprattutto la capacità di progettare che non abbiamo. E per costruirla ci vuole un grande sforzo».

Da dove si comincia?
«Faccio una piccola riflessione, banale, elementare, che però tutte le volte suscita, nell’ambito di conferenze o altro, il più grande stupore. Perché nelle scuole italiane un po’ di storia dell’arte per il rotto della cuffia si fa, ma di paesaggio non si parla mai? C’è una ragione per cui dobbiamo far finta che non sia un tema? Chi l’ha detto? E come mai, visto che questa cosa è sotto gli occhi di tutti, nessun ministro, in nessuna riforma, ha nemmeno progettato che nei programmi di storia dell’arte ci sia spazio per il paesaggio? Questo è un deficit culturale che stiamo pagando e che i nostri figli e nipoti pagheranno ancora di più. Perché avranno un’Italia meno bella di quella che abbiamo visto noi».

Cosa risponde a chi sostiene che il paesaggio, soprattutto in Toscana, è frutto dell’azione dell’uomo, che i casali li hanno costruiti i contadini?
«Io non risponderei nulla, è giusto, chi può obbiettare qualcosa?».

E se i contadini di oggi invece del fienile vogliono fare il capannone di lamiera?
«Il capannone di lamiera non lo possono fare perché nella tradizione toscana non c’è. A Siena, ma in tutte le città comunali italiane, ci sono norme che limitano l’arbitrio del privato sin dal Medioevo. Ci sono state sempre ed in certe città ancora valgono. A Modena è ancora valida nei regolamenti comunali una norma secondo cui nulla può essere più alto della Ghirlandina. In tutto il territorio comunale, anche nei punti da cui la Ghirlandina non si vede. La tradizione italiana è quella. Non è vero che in passato ognuno costruiva quello che voleva e che oggi c’è qualche personaggio molto cattivo che per misteriose ragioni vuole imporre vincoli. Se l’Italia è diventata quel paradiso del paesaggio, dell’equilibrio uomo-natura, tutti sanno che è proprio per questa ragione. Perché lo sviluppo del paesaggio è stato armonico e governato.

Mentre ora noi vogliamo che non lo sia più, fingendo che lo sia. L’altro punto, non meno importante, è che una volta, in un momento che si può collocare tra le due guerre mondiali, c’era una cultura generale che inglobava tutto e che le vecchie generazioni ancora hanno. In realtà era altamente improbabile che una costruzione, anche abusiva, fatta da un contadino analfabeta, non fosse bella».

Beni culturali, Settis: ”Vera emergenza italiana è tutela del paesaggio”
Roma, 7 giu. (Ign) 2007

Presentati ai Lincei i volumi sul restauro della torre pendente

Il direttore della Normale di Pisa: ”Il nuovo codice dei beni culturali dovrà garantire un efficace coordinamento tra Stato, Regioni, Province e Enti locali, la cui assenza è il maggiore freno agli interventi di risanamento”

”La vera emergenza italiana è quella legata alla tutela del paesaggio”. Salvatore Settis (nella foto) lancia l’allarme e spiega che l’unica possibilità di salvezza per il patrimonio del Belpaese è legata alla messa a punto di un nuovo codice per i beni culturali.

”Codice che -spiega a Ign, testata on line del gruppo Adnkronos il direttore della Normale di Pisa- è a buon punto e su cui stiamo lavorando con grande impegno”. ”Il precedente quadro legislativo -sottolinea- non riesce a tutelare il patrimonio”. E soprattutto ”con le attuali leggi il coordinamento tra Stato, Regioni, Province e enti locali appare sempre più difficile, mentre la capacità di interagire dei vari attori è fondamentale per ottenere un buon risultato”.

Settis -riferendosi alla presentazione odierna ai Lincei dei volumi sull’intervento sulla torre di Pisa- spiega che quello che ha portato al salvataggio del campanile del Bonanno è ”un caso che sembra un miracolo, proprio perché rappresenta un momento in cui si è raggiunta una sintonia tra tutti coloro che erano coinvolti nel tentativo di raddrizzarla. Una sintonia che invece quando si cerca di salvare l’ambiente non si trova. E proprio su questo -conclude il direttore della Normale- si dovrà misurare il valore del nuovo codice dei beni culturali che presto vedrà la luce”.
PAESAGGIO. La lunga guerra tra Stato e Regioni
SALVATORE SETTIS
27 novembre 2007, La Repubblica
L´aggressione al nostro patrimonio è agevolata da conflitti di competenza che si riproducono da decenni indebolendo la salvaguardia
Una riforma del Codice Urbani secondo rigorosi principi di tutela e di pianificazione
L´intrico di norme non chiarisce se ambiente e territorio sono la stessa cosa

Sulla Repubblica del 19 novembre Mario Pirani ha attirato l´attenzione sull´assalto al paesaggio italiano, e sull´intreccio di norme e competenze che lo incoraggia. Per cercare una soluzione, auspicata sullo stesso giornale da Francesco Rutelli (15 novembre) con dure parole contro «i programmi di edificazione che possono irreversibilmente far male al Paese», è bene richiamare i “precedenti” del problema.
La tutela del paesaggio in Italia è più recente di quella del patrimonio culturale, ma si innesta sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico. Difesa dei monumenti e difesa del paesaggio si legano nel primo Novecento: un articolo di Corrado Ricci su Emporium (1905) mette insieme il tentativo di aprire una nuova porta nelle mura di Lucca (battuto da una campagna di opinione, che incluse Pascoli e D´Annunzio) e le minacciate distruzioni della cascata delle Marmore e della pineta di Ravenna, poco dopo protetta da apposita legge. Ma la prima legge sul paesaggio fu presentata nel 1920 da Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione nell´ultimo governo Giolitti.
La relazione Croce invoca «un argine alle devastazioni contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo», perché la necessità di «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d´Italia, naturali e artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Il paesaggio «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari (…), formati e pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Si nasconde qui una citazione della formula di Ruskin, il paesaggio come «volto amato della Patria»; ma ancor più notevole è che Croce cercasse precedenti nella legislazione degli antichi Stati italiani, trovandoli nei «Rescritti Borbonici del 1841, 1842 e 1843», che «vietavano di alzare fabbriche, che togliessero amenità o veduta lungo Mergellina, Posillipo, Capodimonte». È sui principi della legge Croce (778/1922) che si fondò la legge Bottai 1497/1939 sulla «protezione delle bellezze naturali», non a caso emanata poco dopo la parallela legge 1089/1939 per la tutela del patrimonio culturale.
La legge Bottai fissa due strumenti per la tutela del paesaggio: l´identificazione delle aree protette «a causa del loro notevole interesse pubblico» e la redazione per cura del Ministero di «piani territoriali paesistici», da depositarsi nei singoli Comuni.
Questo sistema centralizzato non poteva resistere all´impetuoso sviluppo abitativo dopo la guerra. Già la legge urbanistica del 1942 aveva introdotto percorsi misti, aggiungendo ai «piani regolatori territoriali di coordinamento», in capo al Ministero dei Lavori Pubblici, i piani regolatori di iniziativa comunale, da approvarsi oltre che dai Lavori Pubblici, dagli Interni e dalla Pubblica Istruzione. L´art. 117 della Costituzione repubblicana (nella sua versione originaria) previde fra le potestà legislative delle Regioni anche l´urbanistica.
Questo passaggio di competenza avvenne tardi e lentamente, con leggi e decreti dal 1970 al 1977, lasciando allo Stato funzioni di indirizzo e coordinamento. In questo iter desultorio la materia urbanistica, che nella Costituzione e nelle leggi si riferiva solo a quanto coperto dalla legge del 1942, finì per ingoiare i «piani territoriali e paesistici» che la legge Bottai riservava alla tutela dello Stato. Il DPR 8/1972, presumibilmente oltrepassando i limiti della delega al governo, trasferì alle Regioni redazione e approvazione dei piani paesistici; il DPR 616/1977 attribuì alle Regioni «la disciplina dell´uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali, nonché la protezione dell´ambiente».
Il peccato d´origine del sistema legislativo di epoca fascista, che aveva separato la materia paesaggistica da quella urbanistica senza prevedere alcun raccordo e anzi sottoponendole a regimi differenziati, finiva dunque col provocare una strisciante annessione del paesaggio all´urbanistica, ambito controllato da istanze locali e meno soggetto ai principi della tutela.
Ma lo spostamento del paesaggio in capo alle Regioni contrasta con l´art. 9 della Costituzione, che è fra i principi fondamentali dello Stato: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Esso riflette l´intimo legame fra tutela del paesaggio e tutela del patrimonio culturale, anticipando gli sviluppi del costituzionalismo europeo, secondo cui «il territorio dello Stato è reso unico dalla cultura specifica del Paese; va inteso come uno spazio culturale, non un factum brutum» (così Peter Hüberle), e la tutela in capo allo Stato ne rappresenta un valore primario e un elemento altamente simbolico.
L´art. 9 della Costituzione impedisce il trasferimento delle competenze sul paesaggio a Regioni ed enti locali. È per questo che nelle norme del 1972 e del 1977 la parola “paesaggio” è rimossa e sostituita con “ambiente” o “beni ambientali”, senza precisare che cosa li distingua da “paesaggio” o “beni paesaggistici”. L´istituzione (1975) del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali presupponeva anzi la coincidenza delle due nozioni giuridiche, annientata però con l´istituzione del Ministero per l´Ambiente (1985). Questa incoerenza fu avvertita da Giovanni Urbani: l´istituzione del Ministero dell´Ambiente, egli scrisse allora, comporta «la rinuncia a una politica di tutela fondata sul rapporto organico tra beni culturali e ambientali»: meglio sarebbe stato (e sarebbe ancora) creare un unico ministero per i beni culturali, il paesaggio e l´ambiente.
È in questo quadro che si innestò la legge Galasso (431/1985), che impose alle Regioni sia l´immediata redazione (spesso disattesa) di piani paesistici o urbanistico-territoriali, sia un controllo sulla gestione delle aree vincolate, affidato ai poteri sostitutivi del Ministero (mai messi in atto). Di fatto, le Regioni hanno sub-delegato ai Comuni le competenze paesaggistiche, cancellando ogni unitarietà nella tutela del paesaggio. La crescita del fabbisogno e la diminuzione delle entrate ha spinto i Comuni a cercare nuovi introiti dagli oneri di urbanizzazione, «dilatando i permessi di lottizzazione e di costruzione per far cassa subito» (così Gilberto Muraro), e provocando un´ondata di cemento senza precedenti. La stessa nozione di paesaggio, nonostante l´art. 9 della Costituzione, è stata sepolta sotto norme che sovrappongono piani urbanistico-territoriali e piani territoriali paesistici, per giunta introducendo anche la nozione di “beni ambientali”.
Ognun vede quanto sia incerto il confine fra paesaggio, territorio e urbanistica, ambiente. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) rimuove completamente la nozione di paesaggio, pur così importante nell´art. 9. Essa assegna alle Regioni il «governo del territorio» (competenze urbanistiche), e riserva allo Stato la potestà esclusiva di legislazione su «tutela dell´ambiente, dell´ecosistema e dei beni culturali», lasciando indeterminata la nozione di “beni ambientali” e dunque la delimitazione di competenze fra i due ministeri. Il Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (che Francesco Rutelli intende ora modificare secondo rigorosi principi di tutela e di pianificazione) ha ereditato questa vasta panoplia di problemi irrisolti.
Davanti allo scempio del paesaggio a cui assistiamo, sempre più chiara è la debolezza di questo sistema normativo. Non giova l´intrico di norme e competenze, che non chiarisce se “territorio”, “ambiente” e “paesaggio”, ambiti regolati da diverse normative e sotto diverse responsabilità, siano tre cose o una sola. Esiste un “territorio” senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un “ambiente” senza territorio e senza paesaggio? Esiste un “paesaggio” senza territorio e senza ambiente? Eppure “paesaggio” e “ambiente” sono prevalentemente sul versante delle competenze statali (ma di due diversi ministeri), mentre il governo del territorio spetta a Regioni ed enti locali. Una ricomposizione normativa, per cui le tre Italie del paesaggio, del territorio e dell´ambiente ridiventino una sola, è al tempo stesso ardua e necessaria.
Il conflitto fra tutela paesaggistica e urbanizzazione si è intrecciato con quello fra Stato e Regioni e coi problemi della finanza comunale, provocando le ferite al paesaggio che sono sotto gli occhi di tutti, e che richiedono con urgenza quella leale intesa, che cento norme declamatorie dichiarano e mille fatti smentiscono ogni giorno. Come ha scritto Giacomo Vaciago, «il nostro “federalismo” invece di “specializzare” ciascun livello (…), coinvolge tutti e ciascuno in varie parti dei relativi processi decisionali ed esecutivi, aumentando così le probabilità di fallimento».
Abbiamo finito col porre al centro del sistema di quella che fu la tutela del paesaggio (materia fragile e cruciale) non la certezza della norma e delle responsabilità istituzionali e personali, bensì la perpetua conflittualità fra regole parziali, ora carenti ora ridondanti, privilegiando de facto gli interstizi dell´interpretazione, che per sua natura è soggetta a ideologismi, contingenze politiche, interessi speculativi e pressioni di parte. Benvenuta è perciò la sentenza della Corte Costituzionale del 7 novembre (nr. 367), che ribadisce la tutela sul paesaggio come «un valore primario ed assoluto, che rientra nella competenza esclusiva dello Stato», e dunque «precede e limita il governo del territorio».
Lo scontro fra normative incoerenti fra loro e fra le interpretazioni rese possibili dall´analisi giuridica formale non conduce in nessun luogo, se non all´ingorgo che sta travolgendo il paesaggio italiano. È ora di tornare a un´alta consapevolezza della dimensione storica, etica e civile della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, che l´art. 9 della Costituzione ha fissato con lungimiranza; è ora di ricordarsi, secondo una sentenza della Corte (341/1996) «che il paesaggio costituisce, nel nostro sistema costituzionale, un valore etico-culturale (…) nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni, e in primo luogo lo Stato e le Regioni, in un vincolo reciproco di cooperazione leale».

Tav, i confini del progresso e gli affari sporchi delle mafie (Giovedì 8 marzo 2012)

di Salvatore Settis

LE MANI della ‘ndrangheta sui cantieri Tav: la denuncia di Roberto Saviano è un grido d´allarme che costringe a ricondurre sul piano suo proprio, quello degli affari, ogni discorso sull´alta velocità. Gli affari sporchissimi (delle mafie) e quelli, si suppone puliti, delle imprese e delle banche.
Ma che vi siano fra gli uni e gli altri intrecci e convergenze di interessi non occorre dimostrare. La storia del riciclaggio di denaro sporco di tutte le mafie, in Italia e fuori, semplicemente non esisterebbe, se non si fosse trovata ogni volta l´impresa “pulita” ma disponibile a trasformare capitali sporchi in condominii, alberghi, autostrade.
Lo scontro pro e contro il progetto Tav in Val di Susa (ma anche altrove, come nel “passante” di Firenze) non si deve svolgere dunque solo sulla fattibilità dei percorsi o i volumi del traffico. Altrettanto importante è chi partecipa agli appalti, e se quel che intende guadagnare corrisponde alla legalità e al pubblico interesse. Ha troppa fretta chi considera i paladini pro-Tav come moderni alfieri dello Sviluppo, bollando i loro oppositori come arcaici cultori del Ristagno. Il volume degli affari qui in ballo (compresi quelli delle mafie) è tale che sulla stessa parola “sviluppo” pesa un gigantesco equivoco. Per sviluppo, infatti, dovremmo intendere il beneficio che deriverà al Paese e ai cittadini da una “grande opera” dopo che sia stata eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a considerare “sviluppo” l´opera stessa, la mera mobilitazione di banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la “grande opera” si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e sociali.
La linea Tav già realizzata fra Bologna e Firenze è certo un vantaggio per chi la usa, ma ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua. I responsabili delle imprese, condannati per disastro ambientale dal Tribunale di Firenze, sono stati poi assolti in appello: insomma, la strage ambientale c´è stata, ma nessuno è colpevole. Era possibile evitare lo scempio? Secondo Il Sole-24 ore, il costo per chilometro delle linee Tav in Italia è il quadruplo che in Francia: quanto di questo enorme divario si poteva spendere per salvare agricoltura e ambiente? Quanto, invece, hanno incassato le imprese interessate, e come lo stanno reinvestendo? Quale sviluppo, e a vantaggio di chi, hanno innescato quegli utili, mentre si devastavano valli e fiumi? Il loro reinvestimento sta contribuendo a risolvere la crisi senza dirottarne il costo sui più deboli e più giovani?
Tramontata ogni ipotesi di project financing sui progetti Tav, la Corte dei conti ha osservato che l´assenza di «una realistica analisi dinamica della copertura economica» ha provocato «un onere rilevantissimo per la finanza pubblica», a causa di «specifici comportamenti del management delle società in questione», nella «penombra che ha circondato importanti negoziazioni», con «decisioni irrazionali o immotivate» che hanno «inciso direttamente o indirettamente sul patrimonio pubblico». Nonostante questo, si è tirato diritto, sulla base di una «connotazione chiaramente apodittica». Anche in Val di Susa, pur senza un´attendibile analisi costi-benefici, la Tav è considerato ineluttabile. Ma il progetto ha oltre vent´anni, le previsioni di traffico su cui si basava si sono rivelate erronee e hanno obbligato a destinarlo principalmente al traffico merci, la condivisione dei costi con la Francia è svantaggiosa. Eppure su questi ed altri motivi di perplessità, a quel che pare, è vietato discutere. Si parla, per un futuro più o meno remoto, di consultazioni con le popolazioni del luogo: un obbligo della convenzione di Aarhus, ratificata dall´Italia nel 2001 ma finora disattesa. Ma più che alle convenzioni internazionali si dà peso agli impegni con le imprese, a costo di darvi corso manu militari.
In un racconto di Mario Soldati, Il berretto di cuoio (1967), il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava, non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato». Finché, affascinato dal cantiere dell´autostrada Torino-Piacenza, scatta la scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo, dall´alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori dell´autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista dell´autostrada». Quando l´autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di “complesso di Aduo” sembra aver preso alla gola troppi italiani, che non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo. Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno “sviluppo arrestato” che inceppa il Paese.
Una risposta autoritaria non è accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del paesaggio, dell´agricoltura e dell´ambiente o la (presunta) convenienza economica della Tav? Unica bussola per rispondere a queste domande, la Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell´ambiente: «La primarietà del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev´essere «capace di influire profondamente sull´ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986). I portatori (sani?) del “complesso di Aduo” dicono il contrario: che le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. Un “governo tecnico” dovrebbe avere la forza di aprire sul tema un vero tavolo di confronto. Parlare di “campagne d´informazione” a una direzione, il cui esito si dia per scontato, non ha nulla di “tecnico”. Sarebbe un gesto politico: e non è di questa politica che il Paese ha bisogno.


    LE ROVINE CULTURALI

SALVATORE SETTIS


I beni culturali, “binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote riforme verbali; un enorme scatolone vuoto entro ci avrebbe dovuto trovar posto, secondo l’aulico programma spadoliniano, l’identità storica e morale della Nazione, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico.
Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l’Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni placebo.
L’incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all’attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti », 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l’allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d’acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.
Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l’intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell’Ambiente.
Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”.
Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.
Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920).
Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan – Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L’idea era di puntare sull’intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale.
Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.
Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l’ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo.
L’accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.
Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l’aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un’assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio.
Il teatrino dell’“assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l’assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l’ammontare dell’evasione fiscale in un solo anno.
100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?
La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d’orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l’assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l’abolizione dell’assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32).
Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l’ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un’Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private.
Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali.
Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

05 giugno 2012, LA REPUBBLICA

– I BENI CULTURALI SENZA UNA POLITICA SALVATORE SETTIS LUNEDÌ – 

Finalmente rivelati i progetti del ministro Lorenzo Ornaghi. Rispondendo con solo nove mesi di ritardo a una lettera firmata da oltre cento direttori di musei, archivi, biblioteche che lamentavano lo stato deplorevole dei beni culturali e il nessun riconoscimento dei loro meriti e del loro lavor

o, il ministro ha parlato chiaro (Corriere della sera, 8 dicembre): bando alle ciance, la vera priorità del nostro tempo è «evitare a ogni costo il diffondersi della peste dell’invidia e delle gelosie sociali», che porterebbero a «un incattivimento della società italiana più pericoloso dello spread, più nefasto di ogni immaginabile stallo dei partiti o del sistema rappresentativo- elettivo». Ecco dunque l’agenda Ornaghi: la pace sociale si raggiunge rinunciando a invidie e gelosie, ognuno si accontenti del suo stato, zitti e mosca. Quanto al suo dicastero, pro bono pacis sarà meglio non rispondere nemmeno al direttore degli Uffizi, anzi bastonarlo se si accorge che il suo stipendio è un decimo di quello dei suoi colleghi americani e un ventesimo di quello di un deputato (italiano) che vende il voto al miglior offerente. No all’invidia
sociale, viva l’armonia. È un modello che si può estendere: per esempio, guai ai disoccupati che vorrebbero lavorare, sono solo degli invidiosi. Vergogna se un malato che non può curarsi per i tagli alla sanità dice che chi può permettersi un’assicurazione godrà di miglior salute. Vituperio su alunni, insegnanti e genitori che vorrebbero una scuola pubblica funzionante, e osano ricordare che secondo la Costituzione (art. 33) scuole e università private, compresa la Cattolica di cui Ornaghi è stato rettore fino a un mese fa, hanno piena libertà ma «senza oneri per lo Stato». Tutta invidia. Qualcuno si permette di ipotizzare «una società in cui tutti i meriti ottengano il loro giusto compenso»? Ma è una «critica sprovvista di un realistico contributo costruttivo », anzi «un malvezzo». Questi «incattivimenti» meglio eliminarli alla radice,
pax vobiscum.
E perché non affrontare gli altri nodi della politica stigmatizzando anche gli altri vizi capitali? Un brillante biologo conteso da università di tutto il mondo vorrebbe una cattedra in Italia (ma non può: i concorsi sono bloccati da sette anni)? Pecca di superbia!
Un operaio di Taranto protesta perché all’Ilva si registra un aumento dei tumori fino al 419 %? Si è macchiato di un altro vizio deplorevole, l’ira. Un malato si lamenta della pessima qualità del cibo in ospedale? Si penta, sta peccando di gola. Un direttore resiste all’idea di privatizzare attività e biglietteria del suo museo? Ma è avarizia! Restano due vizi nella lista, lussuria e accidia. Del primo abbiamo registrato fin troppi esempi (in Parlamento e nei CdA), ma non incattiviamoci al punto di ricordarli. Di accidia viene accusato frequentemente proprio Ornaghi, ma si tratta palesemente di «distorsioni o fratture che caratterizzano la nostra convivenza civile». E a Gian Antonio Stella che gli aveva chiesto ragione della sua ostinata assenza dalla scena (detta in linguaggio curiale, quel Ministero è davvero “sede vacante”), il ministro risponde serafico che sì, magari fra un mesetto, «trascorso questo periodo di feste», potrebbe concedergli un incontro.
Piuttosto, in questa politica- catechismo, varrà la pena di ricordarsi anche dei Dieci Comandamenti.
Settimo: Non rubare, per dirne una.
Ma allora come mai Ornaghi ha difeso in Parlamento il suo consigliere Marino Massimo De Caro, arrestato pochi giorni dopo per il furto di migliaia di libri nella biblioteca napoletana dei Girolamini di cui, proprio in quanto consigliere del ministro, era stato nominato direttore? E come mai Ornaghi non ha sentito nemmeno il bisogno di scusarsi via via che la magistratura scopriva altri furti del De Caro (ancora e sempre in galera), in decine di altre biblioteche in cui entrava come suo consigliere? Forse per non «incattivire»? Sarà, invece, ostensione di bontà la sua tesi, spesso ripetuta tra un coro di fischi, che è meglio che lo Stato se la svigni dai musei e ceda il passo ai privati? Per troppo tempo abbiamo sperato che la destra “colta e pulita” del governo Monti segnasse un progresso rispetto alla destra becera e incolta dei governi Berlusconi, ma almeno in questo caso non è così. Sarà forse per carità cristiana, ma certo Ornaghi ha voluto dimostrare urbi et orbi che il povero Bondi non era, dopotutto, il peggior ministro possibile. Bisogna ammetterlo, ce l’ha fatta. (trascrizione patrimoniosos.it)

LUNEDÌ, 10 DICEMBRE 2012 la repubblica –


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